GRAHAM LAMBKIN Salmon Run - LP (Blank Forms, 2021)
KATALIN LADIK Water Angels - LP (Alga Marghen, 2021)
Una chiara descrizione di quel che contengono i dischi di Graham Lambkin è impresa alquanto ardua. Un’etichetta, o meglio un paio di etichette, pure ci sarebbero da apporre sui suoi dischi, ma ne risulterebbe sminuito. Diciamo che sono dei lavori che richiedono all’ascoltatore una disposizione d’animo che non sempre è lì, pronta a scattare sull’attenti, soprattutto oggi che la musica è vissuta superficialmente mentre si fa altro (si, anche quella underground indipendente di cui si stanno vedendo gli ultimi fuochi e che fattivamente ormai sta alla stregua di tutte le altre musiche: nessuno compra più nulla, tutto è solo ascolto di file o streaming con le conseguenza che sappiamo). Ma diciamole ora due cose su questo eccentrico personaggio con l’aria del dandy decadente un pò impettita (oh, è pur sempre un inglese): negli anni 90 è stato il leader di una band, gli Shadow Ring, che raccogliendo l’eredità del postpunk più malfermo e minimale è arrivata a una personale mescola fatta di carole caliginose, spoken word e senso dell’assurdo domestico; poi sul finire degli anni dieci del duemila, archiviata l’esperienza con la band l’uomo si è reinventato discografo fondando la Key, con la quale ha stampato alcuni de suoi personali lavori (tra cui questo di cui scrivo) e di tanti altri artisti impegnati in un particolare tipo di sperimentazione povera e dai tratti enigmatici, allusivi. “Salmon Run”, uscito nel 2007 in cd é uno dei tre dischi solisti di Lambkin recentemente ristampati dalla Blank Forms che dimostra, a mio modestissimo parere, il suo saper cavar fuori autentiche meraviglie agendo solo come organizzatore di suoni. Sì, ho usato codesta espressione perché di fatto la musica-non-musica che si incontra in queste due facciate di vinile non è nient’altro che un collage di registrazioni, selezionate e aggiustate all’insegna del disequilibrio, come da prassi della musica concreta e acusmatica. Rispetto alla parossistica intensità negli strappi e accostamenti che si incontrano in certi dischi di quelle aree però c’è una differenza: qui i caratteri sono più deliberatamente sobbalzanti, spompi, a-narrativi e finanche mistici, ma di un misticismo lontano, inafferrabile che mi verrebbe da definire involontario. Una cosa, presa nel suo insieme che ha forse il suo referente più prossimo nelle pratiche fluxus. A scivolare fuori come nella via regia del sogno è un serpentone di suoni che vanno da non ben definite macchine in azione attraversate da sciaguattii di liquidi a rumori prodotti all’interno di uno spazio chiuso ed echeggiante ; da appropriazioni indebite di musiche altrui (una circospetta piece di lirica con tanto di voce femminile che spiega le sue ali, cori chiesastici, piano e violino sgocciolanti note) a suoni residuali, piccoli, che sono nell’occhio dell’immaginazione ragnatele sconsolate che pencolano nell’angolo di una stanza vuota. I vari frammenti, quando si sovrappongono creano inattese geografie di pensieri disciolti in un liquido di spurgo ma, e qui sta la magia, il risultato non è affatto confusionario, perché come sappiamo bene tutto ciò che che perde di definizione/riconoscibilità ne guadagna in forza evocativa (se ben dosato ed assemblato, ovvio). La voce, presumibilmente di Lambkin, viene usata per ridacchiare di tanto in tanto ed emettere versi che imitano chissà cosa. Anche qui la qualità amatoriale delle registrazioni (non mi stupirebbe venire a sapere che alcune sono state fatte con un cellulare) fa la differenza in quanto i suoni catturati finiscono per trasformarsi in altro, con quel velo di abrasiva opacità che li imbozzola. È un’arte che basta a se stessa quella che scorre in queste dieci tracce, un’arte che abita gli spazi dell’ambiguità e che è fatta di segni e materie schiantate in un alveolo onirico. Solo intimamente unitaria come proposta ma bellissima, seducente, perché ti fa sentire tutto il calore di una fantasia che appartiene solo ed esclusivamente alla mente dell’uomo che l’ha partorita.
Nel dar forma a sentimenti/stati (mi)possibili emersi dalla profondità dell’inconscio c’è un altro disco, uscito sul finire del 2021, che potremmo avvicinare a buon diritto a quello di Lambkin. E a produrlo è un’etichetta italiana, la Alga Marghen, che già in passato si era occupata di questa artista. Katalin Ladik è una quasi ottantenne di origini ungheresi, conosciuta più che altro nei circuiti dell’arte contemporanea, e il cui percorso si snoda toccando poesia sonora, performance, teatro. Il primo lato del vinile è interamente occupata da una suite del 1989, “Water Angel” che è composta da vari frammenti vocali (recite di testi autografi dell’artista e di brani di Lewis Carroll e Joyce) andirivieni di onde marine e suoni prodotti da uno strumento autocostruito chiamato zitherphone, il cui controllo è accreditato a Ernö Király (etnomusicologo e compositore con la quale la Ladkin ha collaborato in diverse occasioni). Le modulazioni della voce oscillano capricciose come uno spiritello uscito dalla lampada dopo centinaia di anni attraversando lo spettro della trasfigurazione giocosa-sinistra, e attivando riflessioni sulla voce come corpo a sé e non come mera emissione del corpo. Non dismette gli abiti di questa suite neanche il pezzo dopo sul lato B ,risalente al 1990 , “Three Orphans”. Anche qui la voce gioca molto con la logica della fabbricazione frammentata , come se volesse concentrare maggiore attenzione nel rafforzare certi elementi ed occultarne altri. Il risultato, va detto, è ancora più sottilmente onirico/evocativo del brano ascoltato in precedenza. A chiudere tre sketch di elettroacustica collagista realizzati dalla Ladik nel 2019 assieme alla compositrice Svetlana Marasch. Non c’entrano nulla con il resto, nonostante siano nei fatti un bel ascoltare, però va detto che non inficiano il valore del lavoro e durano poco. “Water Angels” è un disco di sound art realizzato da un’artista che ha affrontato la sfida con lo stesso spirito esplorativo di tutti gli altri campi in cui si è cimentata; e la cui fantasia rimanda esplicitamente a quella sbrigliata e anarcoide degli anni caldi della sperimentazione 60/70 che investiva l’arte di ogni latitudine ricordando all’uomo del progresso che la mente umana era stata nel corso del tempo molto più abitata dal magico e dal soprannaturale che dalla razionalità. LZ